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Il Mezzogiorno. Da "questione" a "problema aperto"

Galasso Giuseppe - Lacaita, Manduria, 2005

Prefazione

Riunisco in questo volume la maggior parte dei miei scritti sulla questione meridionale. Sono quelli (sul pensiero meridionalistico – la cui prima parte è riprodotta come apparve nella Storia del Mezzogiorno, diretta da me e da Rosario Romeo – e sull’elaborazione storiografica e sociologica) già raccolti nel primo volume del mio Passato e presente del meridionalismo (Napoli, Guida, 1978), a cui si accompagnano qui l’Epilogo (Meridionalismo 1978) del secondo volume dello stesso Passato e presente e una serie di altri articoli, saggi, note, studi, apparsi via via, dopo il 1978, e fino ad oggi, negli atti di convegni, in riviste, pubblicazioni occasionali, periodici di vario tipo. Essi configurano, perciò, una certa continuità di riflessione, che credo risulterà evidente a chi vorrà percorrere le pagine che seguono. Ancor più evidente questa continuità dovrebbe, peraltro, essere a chi volesse pure associare, a quelli qui raccolti, altri studi e pagine sul medesimo argomento già compresi in altri volumi miei (fra i quali cito, in particolare, il già ricordato secondo volume di Passato e presente del meridionalismo, le cui «cronache discontinue» degli anni ‘70 l’autore considera organicamente integrativi del presente volume, nonché L’altra Europa. Per una antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Lecce, Argo, 1997², e Seguendo il PCI. Da Tagliata a D’Alema, Lungro, Marco, 1998). E vorrei anche ricordare che alla continuità della stessa riflessione mi ha fortemente sollecitato e ha contribuito – oltre al mio lavoro di storico – una costante presenza giornalistica sui temi meridionali e meridionalistici.
Da ultimo, questa presenza si è tradotta nella rubrica domenicale dal titolo Il tempo e le idee, nel «Corriere del Mezzogiorno», che iniziai nell’ottobre 2002.
All’inizio di questa mia ultima attività giornalistica i problemi del Mezzogiorno erano in grave eclisse non solo negli interessi dell’opinione pubblica, bensì anche, e soprattutto, fra gli studiosi delle varie discipline che dovrebbero prestare agli stessi problemi un’attenzione specifica e approfondita (storia e sociologia, economia e scienze politiche, per esempio) e, soprattutto, nel mondo politico. Ricordo la sorpresa generale, superiore di molto a quella che potevo prevedere, destata dal discorso che tenni, nella Protomoteca capitolina il 30 gennaio 2000, alla presenza del presidente Ciampi e dei presidenti del Senato, Mancino, e della Camera, Violante. Mi aveva invitato a tenere quel discorso Gerardo Bianco nella sua qualità di infaticabile e appassionato presidente dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. Il tema che avevamo convenuto era Il Mezzogiorno problema aperto. La sorpresa nacque per la mia rappresentazione di un Mezzogiorno ancora coinvolto in pieno, e in tutto il suo complesso, in una condizione di grave deficienza di sviluppo moderno, che manteneva vivo nella sua eloquente portata il dualismo italiano nella struttura economica e sociale del paese. La convinzione comune era, invece, che il Mezzogiorno avesse realizzato sviluppi recenti tali da doverlo ormai considerare sulla strada di un sostanziale pareggiamento alle condizioni della restante Italia.
Per tale convinzione la «questione meridionale» appariva ormai obsoleta sia come realtà di fatto che come criterio di analisi e di giudizio. Da un lato, dunque, un Mezzogiorno animato da ritmi di crescita superiori a quelli di altre partì dell’Italia; dall’altro, un Mezzogiorno al di fuori della «questione». Tutta una corrente di studi confortava queste valutazioni della politica e dell’economia. Si era cominciato dagli anni ‘80 a parlare della necessità di considerare il Mezzogiorno senza il meridionalismo: che significava, al tempo stesso, considerare l’ottica della famosa «questione» inappropriata alla realtà meridionale non solo dell’oggi, bensì anche del passato. Quale dualismo italiano? Si giungeva a negare, senza mezzi termini, l’importanza del divario, attestato da tutti gli indicatori statìstici, fra l’Alta e la Bassa Italia. Quale Mezzogiorno? Bisognava scomporre il Mezzogiorno in parti e settori che, costituendone la vera essenza, vanificavano ogni fondatezza, anche storica, della «categoria Mezzogiorno» (così, con poca eleganza e proprietà semantica, si denominava la nozione di Mezzogiorno).
Si potrebbe proseguire nella indicazione esemplificativa degli assunti di coloro che negavano la consistenza, se non addirittura la realtà, del divario fra le “due Italie”, come le indicava Giustino Fortunato. Sarebbe, però, superfluo. È notorio che parlare di Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, dualismo e divario italiano come elementi significativi e attuali della realtà del Bel Paese, e come un massiccio problema perdurante nell’agenda dell’economia e della politica italiana, rappresentava esporsi irrimediabilmente ai sorrisi di sufficienza di coloro che vedevano già in corso un’era nuova di conoscenza e di sviluppo della realtà italiana e meridionale, per cui veniva a mancare alla discussa e negata «categoria Mezzogiorno» il fondamento preteso dal “vecchio meridionalismo”, dalla “vecchia politica”, dalla “vecchia storiografia”, e così via dicendo.
E’ difficile valutare il danno prodotto da queste convinzioni sia sul piano culturale che sul piano politico. Il mio habitus di storico mi porta sempre a chiedermi la ragione di una tale impertinenza di analisi, giudizi, prospettive (e qualcosa ho detto al riguardo in alcune pagine del presente volume). Mi porta a credere che ragioni, in questo caso, di certo non mancano; e che, volendo molto sinteticamente indicarle, le si possa agevolmente ravvisare sia nel progressivo deterioramento della spinta meridionalistica che caratterizzò l’Italia per un buon ventennio dopo la fine della guerra nel 1945, sia nella profonda crisi dell’intero sistema politico italiano tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90 del ‘900: con un nesso, quindi, fra vicende meridionali e vicende nazionali rispondente alla loro notoria, reciproca relazione. E, comunque, qualsiasi opinione si voglia avere in merito, resta il fatto che negli ultimi due o tre anni il Mezzogiorno è tornato con impreveduta, fortissima attualità fra i temi principalissimi del dibattito e dell’attività politica in Italia. Ben più: l’ondata culturale che aveva prodotto la negazione della «categoria Mezzogiorno» è andata ancor più drasticamente rifluendo; e si è tornati a parlare del Mezzogiorno quale grande problema aperto e complessivo come poche altre volte si è fatto, e ne parlano sempre più spesso, e con esibita e disinvolta convinzione, come se avessero sempre detto le stesse cose, anche molti dei brillanti campioni dell’improvvisazione politica e culturale che volevano negare la «questione» e la «categoria».
Si tratta di problemi sui quali si preferirebbe - come è naturale e come è facile capire - avere torto e vedere trionfare le ragioni degli avversari: la realtà del Mezzogiorno sarebbe in tal caso di gran lunga migliore. Io appartengo alla generazione che - come ha molto ben detto Luciano Cafagna in un articolo sul supplemento economico del «Corriere della Sera» di lunedì 16 maggio 2005 – «ha vissuto le speranze della riforma agraria, le cui glorie sociali furono vanificate dalla grande emigrazione interna [e non solo interna, bisognerebbe aggiungere] degli anni Cinquanta; ha vissuto le speranze di una rivoluzione strutturale ad opera della Cassa per il Mezzogiorno; ha vissuto le speranze della programmazione trasferìtrice di grandi imprese pubbliche e private». Chi ha vissuto queste esperienze percepisce bene tutto il pathos che esse hanno comportato di emozioni, ideali, passioni, tensioni, impegno e azione, oltre che di speranze. Cafagna ha dichiarato di aver «vissuto persino [quanto rivelatore questo “persino”!] il tentativo di assecondare, con Sviluppo Italia, le timide fioriture localisti-che»: almeno queste speranze io non le ho vissute, non essendomi fatto fin da principio nessuna illusione su Sviluppo Italia. Ma, se fosse riuscito quel tentativo, ugualmente sarei stato felice di dare ragione a coloro che contraddicevo.
Così, invece, non è stato. Sempre a causa di quel “clientelismo politico” del Sud verso il centro nazionale e all’interno del Sud, nel quale Cafagna vede la causa esplicativa delle delusioni e degli errori di ieri? Ma Cafagna stesso sa che le ragioni delle deluse speranze e dei fallimenti di ieri (come di quelli di oggi) sono ben più complesse, e che il gioco delle forze politiche e sociali al livello nazionale non meno che al livello interno al Sud vi ha avuto una parte cospicua fino a essere determinante.
La forza e la logica delle cose non possono, comunque, essere a lungo negate o stravolte. Le infondate asserzioni di coloro che hanno ferocemente polemizzato contro il meridionalismo e contro la questione meridionale e hanno correlativamente esaltato un presunto nuovo corso delle cose nel Mezzogiorno hanno dovuto arrendersi alla realtà, e la conoscenza della realtà è sempre una delle massime risorse di cui gli uomini dispongano.
Non vogliamo neppure dire che in tutte quelle negazioni e correlative esaltazioni non vi fosse «qualcosa di serio e di vero», come ha anche qui ben detto Cafagna. «In sostanza – egli ha scritto – [quei negatori ed esaltatori], da un lato, sì, idealizzavano i casi e le forme di sviluppo locale e settoriale che, in passato e nel presente, il Mezzogiorno ha pur conosciuto e conosce. Ma volevano anche dire che quella, fosse presente o no, in diffusione o no, era comunque la forma giusta» di fronte al problema dello sviluppo del Mezzogiorno, in opposizione alla «forma sbagliata» del «far piovere “cattedrali nel deserto” o mandare giù miliardi» destinati a una triste dispersione ma-fiosa o camorristica. In verità – tanto per discutere – si sa che di quei miliardi e della “politica speciale” a suo pro’ il Sud fu ben lontano dall’essere l’unico, e neppure, spesso, il maggiore, beneficiario, perché opere, lavori, servizi, fondi, indotto, ritorni di vario tipo ricascarono in misura altissima su aziende, gruppi, capitani d’industria e di finanza e altri operatori del Nord, dai maggiori nomi dell’industria nazionale alle cooperative emiliano-romagnole. Né la considerazione realistica delle cose priva del suo dinamismo e del suo stato migliore ciò che davvero è dinamico e in migliori condizioni. Il realista può diventare quel che di solito si intende per una Cassandra solo se il suo discorso si esaurisce nel prospettare il peggio. Ma repetita iuvant. Ripetere che il Mezzogiorno sta come sta, rispetto alle connotazioni degli ultimi anni, insieme revisionistiche e trion-falistiche, nel dibattito politico e culturale che lo riguarda, ha giovato; ed è stato anche così, e per ciò, che si è finiti a riconoscere con maggiore facilità di dover parlare del Mezzogiorno come un problema tanto grave quanto urgente e complesso. Che poi, tornandosi a parlare di Mezzogiorno, si dica e si faccia quanto di meglio sarebbe possibile, è un altro discorso. La raccolta di questi scritti vorrebbe, sia pure minimamente, contribuirvi.
La testimonianza che si spera essa possa rendere sta anche nell’indicare che dalla “questione” al “problema aperto” la riflessione meridionalistica non è stata affatto quella sorta di lamentosa ripetizione di motivi più o meno convenzionali, di cui tanto spesso e tanto a torto, ad essa si fa carico. È stata, infatti, una vicenda di pensiero che ha continuamente ricercato, al di là e al di sopra della propria logica, quale fosse lo stato effettivo delle cose e gli impulsi che ne potevano venire a una politica che allo stato e alle spontanee tendenze delle cose non si fosse voluta passivamente adeguare. È vero - perché negarlo? - che il senso della riflessione meridionalistica era di imprimere alle cose un indirizzo che forzasse in qualche misura il loro corso “naturale” (ma è mai tale il corso delle cose?). Dalla “politica per le aree depresse” dell’immediato dopoguerra alle seduzioni di una “politica di piano” della fine degli anni ‘50 la mira è rimasta quella sia di una certa forzatura che di una apprezzabile accelerazione del corso delle cose nel senso delle vedute politiche e politico-culturali del momento. Il superamento di questo bagaglio o, piuttosto, patrimonio di idee costruito nel tempo ha occupato soprattutto gi anni ‘80, con gli esiti di cui si cerca di dare qui una rappresentazione attendibile e una valutazione persuasiva e, soprattutto, realistica. E basterebbe già questo a dimostrare l’interna capacità di riflessione, aggiornamento e innovazione della riflessione sul Mezzogiorno come “questione” e come “problema aperto” dell’Italia contemporanea pensiero. Ripetitivo e convenzionale è solo quel “meridionalismo piagnone e accattone”, di cui nessuno in buona fede può fare carico all’autentica tradizione meridionalistica e alla politica che ne è stata sollecitata e che ha cercato di rispondere ad essa.

* * *

Data la natura del volume, accadrà di trovarvi più di una ripetizione di nozioni, e perfino di parole, inevitabile in una raccolta di scritti preparati a distanza di anni per molte e diverse occasioni1 (e, in un caso, si ritroverà proprio lo stesso testo, Mezzogiorno, problema aperto, 3 e 4, in una diversa formulazione, per due occasioni di cui si vuole lasciare memoria). L’idea della raccolta è nata dalla possibilità di dare con essa una testimonianza vissuta e studiata della discussione svoltasi sul Mezzogiorno d’Italia dal tempo in cui non si mettevano minimamente in discussione le nozioni di Mezzogiorno e di questione meridionale fino ad oggi, quando se ne è ricominciato a parlare; e il titolo della introduzione al presente volume (Dalla “questione meridionale” al “Mezzogiorno problema aperto”) vuole anche dare subito un’idea del senso di questo ricominciare. Che è, appunto, un ricominciare, non già un ripetere, e neppure è una semplice escogitazione verbale (problema invece di questione). E quel titolo vuole esprimere, infatti, la consapevolezza e la presa d’atto di tutto quanto (non poco) è mutato, in quasi un secolo e mezzo, in molti dei termini della “questione” (e per questo verso mi piace, anzi, ricordare che già nel 1975 apparve un volume, al quale anch’io collaborai, edito da Laterza, a cura di Alessandro Petriccione, col titolo, già allora significativo Mezzogiorno questione aperta).
A Gerardo Bianco, al collega Pescosolido e all’ANIMI il mio grato pensiero per la pubblicazione in questa collana, che, come l’ANIMI, vive ancora nella suggestione dei grandi spiriti del meridionalismo, a cominciare dalla grande e nobile ombra di Giustino Fortunato. Per chi ha la salda convinzione che il meridionalismo e, più in generale, la riflessione sul Mezzogiorno abbiano rappresentato e rappresentino, nelle loro punte e istanze più alte e più schiette, una pagina rilevante nella vita politica e culturale della «nuova Italia», non è, questo, un motivo trascurabile di conforto. Si tende spesso a parlare, sugli ultimi tempi, del Mezzogiorno come «risorsa», oltre che come «problema», oppure come «opportunità». Sono metafore di cui ci si può compiacere per lo spirito che sembra animarle, anche se risorse e opportunità esigerebbero altre implicazioni e deduzioni. Certo è, comunque, che sul piano della cultura italiana il Mezzogiorno è stato ben più che una risorsa o una opportunità e ha contribuito in misura più che cospicua alla vita sociale ed etico-politica del paese.

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