L’Italia non può crescere se non si risolve la questione meridionale Il nostro Paese ha saputo diventare grande anche grazie al protezionismo. Ma il Sud arretrato resta un problema di Giuseppe Bedeschi [Il Foglio, 21 febbraio 2017]

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L’Italia non può crescere se non si risolve la questione meridionale Il nostro Paese ha saputo diventare grande anche grazie al protezionismo. Ma il Sud arretrato resta un problema di Giuseppe Bedeschi [Il Foglio, 21 febbraio 2017]

L’Italia non può crescere se non si risolve la questione meridionale
Il nostro Paese ha saputo diventare grande anche grazie al protezionismo. Ma il Sud arretrato resta un problema

di Giuseppe Bedeschi

[Il Foglio, 21 febbraio 2017]

Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in ItaliaL’Italia non può crescere se non si risolve la questione meridionale
Il nostro Paese ha saputo diventare grande anche grazie al protezionismo. Ma il Sud arretrato resta un problema

di Giuseppe Bedeschi

[Il Foglio, 21 febbraio 2017]

Fondere intimamente le tematiche etico-politiche e statuali con quelle economico-sociali (viste soprattutto sotto l’angolazione dello sviluppo) è impresa che è stata compiuta solo da pochi storici italiani: pensiamo a Gioacchino Volpe, a Gaetano Salvemini, a Rosario Romeo. A questa linea si è ispirato Guido Pescosolido (allievo appunto di Rosario Romeo) nel suo ultimo libro “Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia” (edito da Rubbettino, 320 pp., 18 Euro), in cui il lettore troverà una miniera di dati e di riflessioni sulla storia dell’Italia unita, dagli inizi fino ai nostri giorni.
L’Unità italiana (1861) fu qualcosa di sorprendente e di imprevisto, un “miracolo”, al quale concorsero forze politiche e correnti ideali eterogenee, anche in profondo contrasto fra loro. Cavour, con l’appoggio di Napoleone III (che voleva porre fine all’egemonia austriaca nella penisola, sostituendola con l’egemonia francese), perseguiva il disegno di costruire un regno costituzional-liberale nell’Italia settentrionale, sotto il trono dei Savoia. Per il resto della penisola egli era vincolato agli accordi di Plombières con Napoleone III, che prevedevano la creazione di un regno dell’Italia centrale, formato dal Granducato di Toscana, dai ducati padani e dalla parte settentrionale dello Stato pontificio. Questo nuovo regno sarebbe stato affidato a un principe bonapartista (Gerolamo Bonaparte). Il Papa avrebbe conservato un limitato territorio intorno a Roma, mentre nel Regno delle due Sicilie la dinastia borbonica sarebbe stata sostituita con un membro della famiglia Murat.

L’audacissima spedizione dei Mille

L’azione di Mazzini aveva invece come obiettivo l’’unità della patria italiana, della nazione italiana, con libere istituzioni repubblicane (“La Patria del popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulla rovina della patria dei re, delle caste privilegiate”). L’audacissima spedizione dei Mille (inconcepibile senza la predicazione fortissimamente unitaria di Mazzini), realizzata dall’eroismo e dalle grandi capacità militari di Garibaldi, fu il colpo decisivo per la realizzazione dell’’Unità italiana. Anche in questa fase ebbe enorme importanza l’azione politica di Cavour, che seppe strumentalizzare la spinta dal basso del movimento nazionale in tutte le sue componenti, soprattutto di quella democratico-mazziniana, presentando alle grandi potenze europee la situazione italiana come un potenziale, grave pericolo di sovversione politico-sociale nell’intera Europa: un pericolo che poteva essere neutralizzato solo dalla soluzione moderata del problema italiano offerta dal Piemonte e dai Savoia.
molti patrioti rimasero gravemente delusi dal sorgere dell’Italia unita sotto Casa Savoia. Come non ricordare le parole di Mazzini, scritte nel 1871 (morirà nel 1872)? “Oggi noi rappresentiamo paghi o dolenti una menzogna d’Italia ... manca l’alito fecondatore di Dio, l’anima della nazione”.
E tuttavia il nuovo Regno d’Italia, nonostante il pessimismo di molti, riuscì ad affrontare situazioni estremamente difficili. C’era, in primo luogo, una grave arretratezza economica. Dice Pescosolido: “Nella penisola, nel nord come nel mezzogiorno, esistevano nel 1861 un certo numero di singole industrie e stabilimenti e una rete diffusa di lavoranti a domicilio di prodotti tessili e di artigianato per il fabbisogno familiare e per la rete di mercanti imprenditori che mediava con i mercati cittadini interni ed esteri. Non esisteva però, in nessuna regione, neppure in Piemonte, Liguria, Lombardia, un sistema industriale nell’accezione autentica del termine”. Bastano questi dati a dare la misura dell’arretratezza italiana rispetto ai paesi più sviluppati: intorno al 1861 in Italia erano istallati 450.000 fusi per la filatura del cotono; nello stesso tempo in Inghilterra ce n’erano 30 milioni. Nella produzione siderurgica, 30.000 tonnellate di ferro prodotte annualmente in Italia avevano in Inghilterra un corrispettivo di 3.700.000 tonnellate: un livello che toccherà solo nel 1953. Nelle ferrovie un certo progresso era stato fatto nell’Italia settentrionale, ma gravissima era l’arretratezza del meridione: qui nel 1861 c’erano poco più di 100 km di binari, contro i quasi 700 del Piemonte (ma la Francia ne aveva oltre 9.000 e l’Inghilterra 14.000). Inoltre, nel 1861 l’analfabetismo colpiva il 75 per cento della popolazione in età scolare (in Inghilterra e Galles quel tasso era solo del 30 per cento, in Francia e Impero asburgico del 40-50). Infine, lo stato italiano dovette affrontare nella prima metà degli anni Sessanta la feroce guerra del brigantaggio nel mezzogiorno (causata soprattutto dal sistema fiscale molto più oneroso di quello del regno borbonico, e dalla leva militare obbligatoria), che causò parecchie migliaia di vittime.
Dunque, una situazione economico-sociale e civile da far tremare le vene e i polsi. E tuttavia il paese, governato dalle nuove classi dirigenti, mostrò di avere molte energie e capacità di recupero, di credere nel proprio avvenire di nazione. Tra il 1861 e il 1921 gli analfabeti nell’intera Italia scesero dal 75 al 29 per cento della popolazione in età scolare (lo stesso mezzogiorno continentale vide la propria quota percentuale diminuire dall’86 per cento del 1861 al 46 del 1921, con un recupero quindi di 40 punti). Notevolissimo lo sviluppo economico. La maggior parte della storiografia riconosce che le scelte di politica economica fatte dallo stato all’indomani dell’unità furono decisive per l’avvio di un grande processo di industrializzazione e di complessiva modernizzazione. La politica agricola e commerciale della Destra storica fu in grado di favorire in agricoltura grandi profitti ed eccedenze di capitali, che furono impiegate nel 1861-86, grazie all’intervento statale, nel più grande sforzo di infrastrutturazione che la storia d’Italia ricordi. La rete ferroviaria del Piemonte, che nel 1860 era una delle più progredite d’Europa, fu estesa a tutta la penisola, e nel giro di un trentennio fu costruita l’intera rete ferroviaria nazionale a binario unico.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel mezzogiorno c’era ormai lo stesso numero di km di ferrovie per abitante esistente nel nord.

Il protezionismo industriale

Una misura coraggiosa e decisiva fu l’adozione della tariffa doganale del 1887. Il protezionismo industriale (che fu criticato da Pareto, da Pantaleoni e da Einaudi) fu in realtà (nonostante i riflessi negativi del connesso e inevitabile protezionismo agricolo, che danneggiò notevolmente il mezzogiorno) “una condizione essenziale per la nascita dell’Italia moderna, uno degli strumenti maggiori, e forse il più importante, tra quelli che hanno consentito al paese di sottrarsi, appena in tempo, al rischio di essere definitivamente respinto al di fuori dell’area industrializzata, e attratto invece nell’orbita del generale sottosviluppo del bacino mediterraneo”. Sono, queste ultime, parole di Rosario Romeo, il quale (nel 1966) sottoscriveva l’analisi di Giuseppe Are. Un’analisi che Pescosolido condivide, e ricorda che parte degli stessi meridionalisti riconosceva (basti pensare al Francesco Saverio Nitti dei primi del Novecento) che, in funzione dell’industrializzazione, non esistevano per l’Italia alternative al protezionismo. E Pescosolido aggiunge: “A prescindere dalle ragioni di tipo politico e militare che furono determinanti nella decisione di accordare una protezione anche alla siderurgia, la quale per altro contribuì in misura non trascurabile alla vittoria nella Prima guerra mondiale, è sotto infatti rilevato che gli sviluppo siderurgici del secondo Dopoguerra, e segnatamente quelli successivi al piano Sinigaglia, hanno provato che quella protezione era stata concessa a un settore che alla fine riuscì a confrontarsi in modo vincente con la concorrenza europea senza il soccorso di barriere protettive nell’ambito della CECA” (p. 160). Dunque, il protezionismo iniziato nel 1887 fu la condizione indispensabile per la creazione in Italia di una grande industria, e senza tale creazione il nostro paese non sarebbe mai diventato una delle cinque o sei grandi potenze industriali negli anni Ottanta del Novecento.
Analisi di grande finezza Pescosolido svolge sulla cosiddetta “questione meridionale” (di cui egli è uno dei massimi specialisti). Qui non possiamo entrare nei dettagli, e ci limitiamo a riportare le parole conclusive, assai franche, di Pescosolido: “La questione meridionale, nel senso se non dell’annullamento, almeno di una riduzione del divario territoriale tra Nord e Sud entro dimensioni coerenti con l’appartenenza alla stessa comunità nazionale, non ha ancora trovato né soluzione né speranza di soluzione, stando alla tendenza registrata negli ultimi venti anni. Ovviamente non si parla di livelli di sviluppo in assoluto del Mezzogiorno, perché dall’Unità in poi e in particolare dagli anni Cinquanta del secolo scorso a oggi, non c’è stata area che si affacci sul Mediterraneo che abbia fatto progressi nella vita economica, sociale e civile, paragonabili a quelli del Meridione d’Italia. Si parla invece in termini di comparazione tra Sud e Centro-Nord, e in tale ottica non è coerente con una comune appartenenza nazionale il fatto che il pil pro capite del Mezzogiorno sia stato nel 2015 pari al 56,5 per cento di quello del Centro-Nord, cioè grosso modo sullo stesso livello di rapporto di sessanta anni addietro ... E ancor più limitante il grado di comune appartenenza nazionale e, a questo punto, anche europea, è che il divario segnalato da tutti gli altri misuratori della vita economica e civile non discordino da quello esistente nel pil pro capite e mostrino anch’essi per gli ultimi venti anni un progressivo allontanamento anziché una convergenza tra le due macroaree della Penisola” (pp. 21-2). La questione meridionale resta dunque (nonostante i milioni di emigrati nel corso del Novecento, e nonostante gli enormi sforzi fatti: basti pensare all’azione della Cassa del mezzogiorno, alla creazione di poli industriali, ecc.) un problema aperto dell’Italia contemporanea.

   

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